Segnalazioni

La "Grande Lecco"? Con cautela

Buon pomeriggio, invio questa lettera in merito al progetto della "grande Lecco", con tutte le perplessità che nutro in merito. La “Grande Lecco”. Ultimamente si parla solo di questo. Ma siamo sicuri che si tratti di un progetto vincente e tanto irrinunciabile? Partiamo innanzitutto dalla smaniosa brama, purtroppo sempre più forte negli ultimi anni, di creare Comuni di dimensioni mostruose. Chi ha detto che “grande” equivale a “bello”, a “vantaggioso”? Uno dei motivi di creazione della “Grande Lecco” risiederebbe nel raggiungimento (e il superamento) della popolazione di Como: un gioco indegno persino per i bambini delle elementari, dove si gioca a chi ha di più e a chi è il più forte. Peccato che si stia discutendo del futuro di una città e dei paesi del circondario, che non può vedere davanti a sé soltanto la fusione coi comuni vicini. Inoltre, diciamoci la verità: mentre Como fu municipium romano, Lecco era un insieme di tanti paesi, senza quell’importanza (almeno fino all’800) che Como ha sempre rivestito. Con questo nulla da togliere a Lecco, ci mancherebbe: si tratta di una città a forte vocazione industriale e al tempo stesso turistica, la città del Manzoni, in continua crescita e sviluppo. Ma Como è una cosa, Lecco è un’altra ed è bella così. E’ falso anche il racconto secondo cui “più si è grandi, più si conta di più”: è il caso di un Comune calabrese (di cui parlerò dopo) che credeva di ottenere maggiore importanza fondendosi con quello adiacente.

Eppure, tutto dipende ancora dalle città storicamente maggiori. Tralasciando ovviamente le varie debolezze che si sono presentate negli ultimi anni, dove la città del Manzoni dovrebbe soltanto guardare a Como, non posso che bocciare (da cittadino della provincia di Lecco) con preoccupazione la proposta di aggregare al capoluogo Abbadia Lariana, Ballabio, Civate, Galbiate, Garlate, Lecco, Malgrate, Mandello del Lario, Morterone, Olginate, Pescate, Valmadrera e Vercurago. Un elenco interminabile di Comuni troppo diversi tra di loro, per storia, costumi, popolazione e tradizioni, con cui sarebbe senza dubbio facile raggiungere e superare Como. Peccato che lo si faccia senza il senno di poi e senza preoccuparsi dei non pochi problemi che verrebbero a galla. Rossano e Corigliano, in Calabria, dovrebbero insegnare: si tratta di due città profondamente diverse, unitesi nel 2018. Dopo pochi giorni dalla fusione, voluta pensando di sistemare i conti in rosso dei Comuni (che invece si sono logicamente trasferiti nel nuovo “Comune fuso”) con la garanzia di non ridurre i servizi (ma con la permanenza dei conti in rosso tutto ciò può venire meno, così come la sbandierata “diminuzione delle tasse” che per questo motivo può trasformarsi in aumento), ecco che i problemi non sono tardati ad arrivare: strade con profonde buche, scarsa manutenzione alle tubature dell’acqua con conseguenti perdite, mancato pagamento dell’impresa di pulizie che operava per il Comune, marciapiedi ricoperti dalle erbacce. Situazione fortunatamente non così tragica ma simile, a Valsamoggia, maxi-comune creato anti democraticamente nonostante la bocciatura da parte dei tre ex comuni più importanti. Se la situazione in precedenza non era rosea, ora è divenuta nera. Un errore in cui stanno incappando anche l’isola di Ischia e Pescara con Montesilvano e Spoltore, dove mi auguro prevalga il buonsenso. Come dicevo prima, non basta evidenziare la fallacità della “favoletta economica”.

Mentre i “padri della fusione” sono impegnati a smontare la questione della “perdita di identità”, i fatti insegnano che anche in questo caso qualcosa da sottolineare c’è: i Comuni più grandi e che rivestono già una certa importanza sul territorio circostante diventano un’anonima e indefinita “frazione”, che non riceverà mai le dovute attenzioni a causa dell’eccessiva (e innaturale) estensione del Comune. Del resto, le agevolazioni alle fusioni sono state create non per costituire nuove aree metropolitane, ma per favorire economicamente i comuni più piccoli. Inoltre, come ha scritto il docente universitario Giovanni Ferrari, non si può “cancellare quell’evoluzione frutto dell’impegno di generazioni, la memoria, il ricordo e il rispetto verso i nostri avi che per secoli, con il loro duro lavoro e in periodi di ben maggior difficoltà di quello attuale, di ben maggior povertà e di ben maggiore sofferenza, sono riusciti a mantenere integra la nostra comunità”. Da non dimenticare che le frazioni degli ex-Comuni diventano “frazioni di frazioni”, dando luogo a un singolare e assurdo status. E ancora, il rischio da parte degli ex Comuni di ricevere un ruolo marginale e di perdere rappresentanza. Va poi approfondito un altro aspetto: il referendum.

Tornando al caso di Corigliano Rossano, non si è svolto nessun vero confronto con i pro e i contro della fusione, non vi è stata nessuna campagna imparziale e completa. Si è soltanto assistito alle favolette di cui abbiamo parlato sopra, che demagogicamente hanno spinto i residenti a votare per il “sì”, inconsci di quello che avrebbero incontrato. Anche in questo caso, tuttavia, era stato notevole l’astensionismo a Corigliano (soltanto il 38% degli aventi diritto aveva votato, il 44% a Rossano). Dunque, non vi è da stupirsi se, al giorno d’oggi, sono sempre di più i cittadini amaramente pentiti di aver votato la “città liquida”. "Sarebbe stato meglio rinviare la data della consultazione e preparare assieme uno studio di fattibilità" si era sentito da un ex sindaco. Peccato che i primi dubbi siano sorti soltanto quando ormai era troppo tardi! Inoltre, il risparmio dei costi è davvero minimo ed ininfluente se equiparato alle spese di un Comune. Anche gli incentivi economici tardano ad arrivare: si tratta di un altro aspetto illusorio. Verrebbe dunque un dubbio: vale la pena creare fusioni innaturali o cercare di cambiare la politica dei finanziamenti ai Comuni da parte dello stato? Forse è da qui che le autorità locali dovrebbero partire: una battaglia per avere maggiori finanziamenti e maggiori possibilità di sopravvivenza. Ad esempio, pur non ritenendolo sufficiente nei confronti dei bisogni dei piccoli Comuni, ritengo siano un passo avanti i fondi che (indipendentemente dalla parte politica) il Governo ha stanziato per le città al di sotto dei 15.000 abitanti. Se si volesse proprio ragionare su una fusione, certamente non dovrebbe avere le dimensioni di quella prospettata da alcuni. Il nuovo Comune potrebbe includere Malgrate e Pescate, la cui aggregazione si prospettava già nel secolo scorso.

Per ragioni di continuità territoriale, potrebbero essere incluse le frazioni di Galbiate di Ponte Azzone Visconti e San Michele, ma non certamente l’intero centro galbiatese di 8.500 abitanti. Con un occhio alla Valsassina, potrebbe essere unita a Lecco anche Ballabio (già aggregata nell’Ottocento a Laorca, che senza il paese valsassinese entrò a far parte di Lecco nel secolo successivo). Si può ragionare anche su Morterone, ma con la dovuta cautela vista la grande differenza del numero di abitanti e la posizione geograficamente “periferica” rispetto a Lecco. In ogni caso, 10.700 abitanti in più che porterebbero Lecco a quota 60.000: un numero più basso dell’agognato “100.000”, dove però prevalgono la ragione e il buonsenso. Non le smanie di grandezza, che la Regione ha già scelto di bocciare sonoramente (è il caso della “Grande Mantova”). Al tempo stesso, non posso che comprendere il “veto” assoluto da parte del sindaco di Pescate Dante De Capitani, che ha reso il suo Comune un gioiello sotto ogni punto di vista (scuole, manutenzione, cura del verde). Il rischio di essere penalizzati è sempre dietro l’angolo. Questo non deve ovviamente escludere la creazione di un’unione di Comuni, finalizzata a mettere in comune le forze e creare una forte sinergia: soltanto in questo modo si otterrebbero degli effetti positivi per i residenti e i vari centri. In questo senso, senza la cancellazione delle identità territoriali e senza la creazione di un maxi-Comune indefinito per la troppa eterogeneità dei territori al suo interno, si garantirebbero anche dei risparmi. Alessandro Bonini


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